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PASSION
(PASSION)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 febbraio 1983
 
di Jean-Luc Godard, con Isabelle Huppert, Hanna Schygulla, Jerzy Radziwilowicz, Michel Piccoli, László Szabó (Francia - Svizzera, 1982)
 
"Più di ogni altra opera di Godard (ma quante volte si è ripetuta la medesima frase?) questa sua ultima sfugge ad ogni possibilità di definizione, per non dire di giudizio. Primo fra tutti, ovviamente, quello sbrigativo e impegnativo delle stellette. Perché PASSION a seconda di come lo si guardi, a seconda della natura incondizionatamente godardiana, o meno, di chi lo guardi è tutto o niente. Capolavoro di purezza espressiva, nel suo rifiuto (ma i nemici di Godard diranno impossibilita...) di assumere forme intelligibili, secondo perlomeno un assunto tradizionale. E se per forma intelligibile noi ci riferiamo a quella accettata nel cinema di oggi, pur con le sue crisi di espressione; con le sue storie che, appunto, il Godard di PASSION rifiuta e contesta.

Qualcuno a Cannes ha accostato giustamente PASSION a MISSING di Costa-Gavras, perfetto, questo, nell'opera del suo autore. E assolutamente privo di novità, di sorpresa, per chi lo guardi con un minimo di distacco. E per sorpresa per l'arte di sorprendere, ci si riferisca al concetto caro a Baudelaire del "bello ciò che sorprende". Al polo opposto di MISSING e del tipo di cinema che esso rappresenta, c'è indubbiamente questo di Godard: visto a questo modo PASSION nella sua incompiutezza, nella sua informità, pure nella sua megalomania o nella sua noia, è quanto il cinema offre oggi come anti-MISSING.

"Non c'è una storia", si continua a ripetere in PASSION: ed in questo concetto di "storia" si condensa l'idea di cinema della tradizione. Non avere una storia a disposizione, per il regista che è anche il protagonista di PASSION (si tratta, lo saprete, di un film sul film) è motivo di angoscia, ma anche di rifiuto. E tutto il cinema di quest'ultimo Godard è basato sull'idea del rifiuto.

PASSION ci mostra un regista e una troupe internazionale che tentano di filmare la ricostituzione di dipinti celebri: Delacroix, Rembrandt, il Greco. Impresa impossibile: accompagnata dalle note di un'altrettanta classica idea del bello (Mozart, Beethoven, Ravel, Dvorak) il regista non riesce a trovare la luce che gli permetta di tradurre in cinema questi concetti di perfezione estetica. Ecco allora irrompere sullo schermo altri momenti (perché proprio non si tratta di storie), montati in parallelo, filmati a velocità sostenuta. Una giovane operaia balbuziente (Isabelle Huppert) contesta il proprio licenziamento, la moglie del padrone (Hanna Schygulla) è l'amante del regista, Michel Piccoli tossisce in continuazione (come per la balbuzie della Huppert, Godard cerca di smitizzare il divo...), una cameriera fa dello yoga, Jerzy il regista diventa l'amante di Isabelle. E la cinepresa di Godard filma tutto, apparentemente alla rinfusa. Rifiuto di una storia, rifiuto di un approccio accademico al linguaggio cinema, rifiuto del bello: PASSION ci mostra nelle composizioni dei celebri dipinti l'idea della bellezza pura. E per i novanta minuti del film ci confessa l'impossibilità (o il rifiuto) di ricalcare quella purezza. Non solo perché ci mostra un regista che non riesce (o si rifiuta di rispettare gli ordini di un produttore) a filmare i figuranti che compongono le celebri rappresentazioni. Ma perché ogni aspetto del linguaggio che egli usa è costantemente interrotto. Una corsa verso il bello, un'aspirazione alla perfezione, costantemente rifiutata. Così le panoramiche vengono interrotte a metà, i dialoghi sono spesso inaudibili, i personaggi irrompono sulla scena, addirittura si interpongono fra l'attore inquadrato e la camera, non appena il clima della scena stessa tenda a un significato compiuto, a una idea estetica o morale del bello.

Lo avrete compreso: per gli incondizionati godardiani, questo disordine è governato da una intelligenza espressiva superiore. E da questa volontà di rottura nasce un diverso rapporto fra il creatore e il linguaggio cinematografico. Un approccio inedito non più verso una storia o una evoluzione psicologica di un personaggio, ma verso delle situazioni. Il viso di Hanna Schygulla scrutato in un monitor televisivo con tale insistenza dal rendere la cosa insostenibile all'attrice stessa. Una panoramica che sfiora gli angeli di un dipinto ricreato, e che vi sembra reinventare questo movimento di macchina vecchio come il cinema.

Ma avrete anche compreso che per gli altri questo disordine non è altro che disordine. Dialoghi incomprensibili e citazioni infantili, montaggio convulso di sequenze prive di significato e produttrici al massimo di noia... A metà strada tra l'entusiasmo sospetto degli ammiratori incondizionati, timorosi soprattutto di far capire di non aver capito, e la volontà di porsi allo stesso livello dello smarrimento dello spettatore, il critico si ritrova nell'imbarazzo di sempre. Anche perché conscio del fatto che il cinema di Godard, nelle sue intuizioni geniali come nelle sue infatuazioni più ovvie, è analizzabile con qualche anno di ritardo. Per l'istante è difficile segnalare qualcosa oltre una situazione di rottura: con i meriti, ma anche con i rischi che questo comporta."


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